VI

L’INTERPRETAZIONE CROCIANA E LA CRITICA CONTEMPORANEA

La fase contemporanea della critica ariostesca fu aperta e condizionata dal saggio di Benedetto Croce[1]. Questi si rivolse allo studio dell’Ariosto in un periodo di eccezionale vitalità critica, dopo un arricchimento e una precisazione della sua teoria e del suo strumento di interpretazione, sia in una maggiore esigenza di definizione di fronte alla tendenza piú descrittiva dei saggi della Letteratura della nuova Italia[2], sia in una piú larga apertura al respiro cosmico che anima la grande poesia, di fronte all’ambito piú limitato della intuizione-immagine realizzata in limpida evidenza immediata che sembrava implicare una scarsa attenzione all’afflato umano, alla totale se pure speciale presenza di tutta la vita nell’opera di poesia[3]. Condizioni da tener particolarmente presenti nell’intendere le ragioni del predominio nel saggio ariostesco della formula «poeta dell’armonia cosmica» e della sua intrinseca natura corrispondente sí ad una effettiva qualità del mondo poetico ariostesco, ma anche, piú in generale, a quella costatazione di poesia cosmica viva nel pensiero crociano come correttivo e ampliamento della sua stessa teoria e realizzata nel contatto di alcuni grandi poeti come Ariosto, Goethe, Shakespeare, che rappresentano i punti piú alti a cui la critica crociana, con amore di comprensione e persino di profonda simpatia personale, seppe avvicinarsi. Ed in quest’ultima direzione è evidente che l’Ariosto era un poeta particolarmente adatto a questa tensione piú alta della critica e della sensibilità crociana anche in un moto di simpatia umana, che, per quanto giustificata e sostenuta con ragioni esclusivamente storiche e critiche, è innegabile via di un primo e piú istintivo contatto, chiuso invece o limitato nel caso ben noto del Leopardi e di Hölderlin o della poesia simbolistica francese[4].

L’Ariosto è dunque un poeta cui il Croce poteva avvicinarsi anche con intensa simpatia nei suoi motivi di calma e concreta adesione alla vita, di saggezza senza moralismo, di ottimismo sereno e consapevole dei contrasti e delle dissonanze senza i quali la vita si trasformerebbe nel fugace ed illusorio giardino di Alcina, ed anzi neppure in quello, in cui sospirano cavalieri trasformati in alberi, e mostri grotteschi inibiscono ogni desiderio di libertà, ma in un insipido vuoto degno delle pedantesche prediche dell’eremita scaraventato in mare da Rodomonte. E d’altra parte l’Ariosto si presentava esemplare in quella fase della critica crociana tesa a definire il singolo poeta e insieme a sentire nella poesia il ritmo purificato, ma intero e pieno, della vita universale. Di modo che nell’eccezionale fervore e nella propizia vicinanza ad un testo cosí adatto alle sue esigenze piú profonde e piú – in quel momento – urgenti, il Croce mise nel suo bellissimo saggio intenzioni che superano il saggio stesso e che pure lo rendono singolarmente ricco ed intenso. Anche se, come sempre, ad una forza corrisponde il suo limite, che può essere qui l’eccessivo predominio della formula (certo la piú suggestiva che il Croce ci abbia presentato nella sua lunga attività di creatore di formule critiche), il pericolo di una coincidenza fra una definizione della poesia ariostesca nel suo sentimento animatore e una piú larga indicazione valida per la poesia non del solo Ariosto. Pericolo anche di una interpretazione troppo funzionale ad una scoperta di ordine generale (e che quasi rende precedente l’idea della cosmicità della poesia e dell’armonia dialettica dello spirito alla precisa formula critica) e capace di accentuare, se non deformare, la natura della poesia ariostesca nella direzione di una contemplazione dell’armonia cosmica piuttosto che nel vigoroso, incessante, se pur sereno, muoversi della fantasia nelle dimensioni di un mondo magico e naturale di cui Foscolo e soprattutto Gioberti ci avevano dato la viva adeguazione nelle loro pagine, o piuttosto che nel riso dell’uomo del Cinquecento libero e spregiudicato, che il De Sanctis ci aveva offerto, insieme con la costatazione della vita nobilmente appassionata e gentile del cuore ariostesco, nelle bellissime analisi delle lezioni zurighesi.

Ma proprio partendo dal De Sanctis e dalle sue posizioni estreme dell’arte per l’arte e dell’impersonalità e obbiettività (sforzo interessante sotto la spinta genuina del suo avvertire nel poema la totale esteticità e l’indifferenza a particolari contenuti, la limpidezza ed evidenza delle figure pittoriche, non drammatiche e psicologiche, e sotto le offerte pericolose di formule parnassiane e veristiche), non pare lecito qualificare come un «passo indietro»[5] il saggio crociano che di quelle inverava il senso piú vivo e offriva insieme una base essenziale per la critica futura nella squalifica (sia pure attraverso una formula che può avere margini di astrattezza intellettualistica di cui il Croce stesso cercò con gran cura di precisare il carattere, i limiti, la portata[6]) dei vari contenuti che tiravano il Furioso verso direzioni non sue, e d’altra parte nella unificazione di un complesso mondo sentimentale in una intonazione generale che non schiaccia i vari sentimenti mentre li unifica in un superiore sentimento, che può essere insieme l’indice del tono poetico, della forma poetica ariostesca.

Qui era la vera felicità di una formula, fortunata per la sua facile volgarizzazione e per il suo stesso raccordo intuitivo fra una visione generale del Rinascimento (serenità, senso di equilibrio e di superiore armonia) e quella del sorriso ariostesco, sentito ormai piú come distacco di saggezza esperta che come scherno e polemica contro un mondo tramontato su cui avevan troppo insistito i romantici. Ma soprattutto efficace perché, in un’approssimazione convincente del sommo amore ariostesco, permetteva di vedere, attraverso la sua trasparente consistenza, il vario e complesso mondo di sentimenti particolari del poema, fra i quali la critica aveva fino allora cercato un sentimento dominante (amore, ironia distruttrice, esaltazione della cavalleria ecc.) o si era rivolta a indicare quei caratteri e quelle dimensioni del mondo ariostesco (evidenza, fluidità, unità nell’apparente disordine, geografia fantastica, naturale meraviglioso) che la formula crociana ammetteva ed unificava, anche se nella tensione della scoperta centrale il Croce non indugiò molto a rilevarli.

Chiarificata nel problema critico ariostesco la subordinazione o la nullità di problemi secondari (che ora in parte possono rinascere in esigenze piú guardinghe e consapevoli della loro funzione) come quelli delle fonti, delle relazioni nella tradizione cavalleresca[7] (e non parliamo di quello delle allegorie riapparso ad esempio nella Introduzione dello Zingarelli alla sua edizione del Furioso[8]), condotta la discussione ai suoi termini piú nudi ed essenziali, il Croce riprendeva le indicazioni del maggiore sforzo che il De Sanctis aveva compiuto, non tanto per ricreare criticamente la ricchezza e i modi di esistere del mondo ariostesco, quanto per cogliere il suo motivo ispiratore essenziale (poeta dell’arte), e, criticatane la formulazione, ne assumeva l’esigenza piú viva. E nella vita degli affetti, nel calore della viva esperienza ariostesca rilevava quel «cuore del suo cuore», quel sommo amore per l’armonia, cui adibiva una materia sentimentale varia ed omogenea e mezzi di espressione coerenti alla ispirazione centrale. Dalla vita degli affetti al motivo ispiratore e unificatore, e da questo alla materia sentimentale da illuminare e muovere nella pratica attuazione dell’ideale mondo poetico: procedimento lineare e a suo modo perfetto, vantaggio indiscutibile di una posizione non preclusiva rispetto a successivi studi del tono dell’armonia ariostesca, dei mezzi dell’attuazione dell’armonia, del mondo poetico realizzato. Cosicché i contributi critici dopo il ’20 si accordano assai facilmente con la posizione crociana, alla cui forza sistematrice parve difficile ribellarsi decisamente, ammesso che ve ne fosse il desiderio. Mentre l’esigenza di una storicizzazione piú profonda, che avrebbe potuto permettere di rivedere ed eventualmente superare la formula crociana, si affaccerà piú tardi insieme ad una attenzione piú viva e sicura ai mezzi espressivi ariosteschi e alla vita dinamica del poema nella sua genesi ed elaborazione; nel periodo successivo all’uscita del saggio crociano si manifestò soprattutto il bisogno di un contatto piú largo con il mondo poetico ariostesco nella sua realizzazione, nei suoi temi, nelle sue particolari proporzioni. Bisogno che, se agiva nel riparo offerto proprio dal saggio crociano, implicava anche l’indicazione dei suoi limiti e della sua natura schematica: solo che quell’indicazione e quell’esigenza di analisi, di esposizioni critiche di temi e di condizioni del mondo poetico del Furioso, non intaccava il centro del saggio e la validità generale della formula, che non venne discussa in posizioni critiche degne di rilievo.

Nella fase della critica idealistica aperta dal Croce, si fece cosí sentire l’esigenza di un contatto piú minuto con il mondo ariostesco, di una descrizione delle sue particolari dimensioni. Di questo si preoccupò Luigi Ambrosini che, in un breve saggio, fervido e impegnativo – pur fra concessioni a un certo gusto giornalistico, in un’atmosfera vagamente estetizzante e senza vera considerazione storica –, definí il mondo ariostesco come un terzo regno fuori della storia e del tempo detto comunemente cavalleresco (ripresa della tesi giobertiana), ma in realtà «regno del naturale meraviglioso» (ed era la ripresa della formula foscoliana e dell’impressione diffusasi nel primo Ottocento[9]).

Approssimazione notevole del naturale-meraviglioso nella sua speciale geografia, nel suo alleggerimento da ogni peso positivo, nella mancanza di veri caratteri e nella sua esistenza tutta stilistica («Non hai piú quel mondo fuori di quello stile»[10]): rilievi ed accentuazioni pericolose della serenità ariostesca portata fino allo scherzo («spassosa finzione»), che si raccolgono nella vivace pagina conclusiva che ancora parla di armonia ricollegandosi cosí alla formula crociana anche se non accettata centralmente:

E cosí alla fine hai la perpetua illusione di un mondo che non è il nostro comune mondo, perché ci sono troppe meraviglie, e quegli uomini, non sono creature di carne che godano e patiscano come noi, né sono i cavalieri della storia, eroi di una azione e di una favola seria, ma cavalieri della fantasia, ideali figure, purissime forme liriche, idealizzazioni della sanità, della forza, dell’audacia, come anche del capriccio e dell’avventura, svagati, mobili, estrosi, ridenti e piangenti come grandi e irrequieti fanciulli, che si rincorrono da un capo all’altro del mondo, pronti ai richiami dei sensi, alle lusinghe delle cose, terribili nelle armi, inermi dinanzi ai propri capricci. E d’altra parte quel dell’Ariosto, non è un mondo fuor della natura e della vita, perché variato ad ogni passo di figure o di aspetti i piú naturali e umani del mondo, e sopra tutto pieno di quella sapienza e indulgenza e di quel lume di ragione, che sono il governo dell’uomo non già in una vita immaginaria e sognante, in un regno di perfezione ultraterreno, celeste, ma proprio su questa terra e in questa nostra vita di ogni giorno, per chi voglia e sappia viverla in una sfera armoniosamente serena e relativamente beata che è l’anima dell’Ariosto e la sfera armoniosa della sua arte[11].

A questa descrizione del «terzo regno» del naturale meraviglioso si avvicina per coincidenza, non per dipendenza (indice questo di come fosse forte dopo la sistemazione crociana il desiderio non di evaderne, ma di far sentire con un contatto piú minuto la qualità e la vita intera del mondo ariostesco), il saggio che Attilio Momigliano pubblicò nel 1925 sul «Giornale storico della letteratura italiana» (Realtà e sogno nell’Orlando Furioso) e che era solo l’inizio di un libro uscito nel 1928 a Bari come Saggio sull’Orlando Furioso. Concordanza testimoniata dallo stesso autore nella Prefazione al volume, ma limitata in realtà al punto di partenza del Momigliano, che nel suo libro volle ricreare tutto il mondo poetico dell’Orlando secondo larghi motivi sinfonici (Atlante, Orlando, Rodomonte, Angelica, Fiammetta), simboli delle direzioni essenziali di quella realtà tutta musicale e fantastica eppur tesa da affetti sinceri e profondi.

L’indole critica del Momigliano, sensibilissimo e dotato di qualità artistiche, era adatta ad una interpretazione che, mentre adegua l’aereo tono ariostesco nel suo incanto musicale e fantastico, lo soffonde spesso di una tenerezza non sua e lo drammatizza eccessivamente, disperdendolo a volte in una specie di nebbia musicale debussyana e perdendo la concretezza rinascimentale e il particolare tono di «confidenza» che distacca l’Orlando da una sensibilità di primo Novecento.

Stabilite le dimensioni particolari della regione fantastica dell’Orlando («L’Ariosto fantasticava in una regione dove gli spettacoli sono piú fugaci e piú leggiadri che quelli della terra, ma riteneva – alleggeriti e ammorbiditi – i contorni e i colori innumerevoli della terra»[12]), il Momigliano individua sulle linee già accennate i toni e le sfumature delle varie avventure in un labile collegamento: il magico, l’amore, la passione. E per reazione alla possibile tendenza a ridurre tutto al fiabesco, il Momigliano accentua il drammatico per cui i personaggi, inizialmente riconosciuti poco compatti, risorgono, e lo stile del critico avvalora un certo travestimento del tono concreto del Furioso verso forme romantiche non sue[13].

Ma, tenuto conto del sottile travestimento, il Saggio del Momigliano rappresenta il «commento»[14] piú ricco di felici approssimazioni e una utilissima preparazione ad ulteriori studi sull’Ariosto. E certo anche l’esagerata insistenza sulla ricchezza psicologica e sul drammatico indirizza bene a sentire piú che nel Croce l’elemento sostanzioso, la nobiltà sentimentale dell’Orlando. E infiniti rilievi illuminano motivi ed episodi tradizionalmente non avvertiti dalla critica, come le bellissime novelle e gli episodi minori, che divennero da allora in poi oggetto di una maggiore e particolare attenzione[15].

Un saggio che piú direttamente si svolge nel raggio della valutazione crociana e che pure rispecchia questa particolare fase di contatti con il poema, diretti a riempire del calore delle analisi espositivo-critiche la linearità del saggio dell’armonia ariostesca, è quello del crociano Giuseppe Raniolo, Lo spirito e l’arte dell’Orlando Furioso[16].

Questo svolgimento delle posizioni crociane, specie nei riguardi dell’animo ariostesco, indagato con finezza e garbo nel suo muoversi fra «sorriso ed entusiasmo e freschezza di sentimento»[17], fra realtà e sogno, si avvicina anch’esso alle preoccupazioni piú evidenti nel saggio del Momigliano, di spiegare dall’intimo dell’animo del poeta l’incontro di leggerezza e distacco sorridente e di nobiltà sentimentale, e di adeguare il tono d’incanto magico e di calore umano in un’esposizione critica del realizzato mondo ariostesco secondo temi fra sentimento ed arte, che qui sono però piú appoggiati a personaggi e a stati d’animo in un nesso assai labile e con una ricchezza di osservazioni particolari assai minore di quella del saggio-commento del Momigliano. Siamo nella tipica epoca delle analisi estetiche e la critica mostra in questi saggi una particolare avidità di ricreare il capolavoro ariostesco in una lettura[18] piú che in una formula, in una serie di analisi estetiche (e in realtà quasi sempre psicologico-estetiche) piú che in una somma organizzata di osservazioni sulla costruzione, sul linguaggio, sui mezzi stilistici del poeta.

Né il Raniolo può sfuggire ad un certo abbandono al riecheggiamento impressionistico e alla variazione sul tema veramente critico e al travestimento del fermo sguardo ariostesco in troppa abbondanza di «sorriso» o di «velo di pianto»; né tale capacità di sorriso e pianto può davvero costituire di per sé «l’unico principio unificatore di tutta la poesia del Furioso»[19].

Dopo i saggi del Momigliano, dell’Ambrosini, del Raniolo, nella fase piú direttamente vicina allo stimolo della valutazione crociana, la critica contemporanea non ha portato contributi di grande rilievo al problema ariostesco, ma si possono indicare piuttosto direzioni accennate di uno studio piú complesso del poema nella sua genesi, nella sua elaborazione, nel suo linguaggio. Periodo di preparazione, si può pensare, per nuove sintesi, e segno della difficoltà di risolvere per ora il problema ariostesco con una vera novità rispetto alla formula crociana e ai saggi sorti intorno a quella. Non molto offrí il centenario ariostesco del 1933, che pur provocò un largo fiorire di studi biografici e storici[20], di edizioni, di rassegne critiche[21] e di variazioni di diverso valore[22], come le pagine letterariamente squisite di Antonio Baldini, lettore appassionato del Furioso, editore dei Cinque Canti[23], autore di un ritrattino ariostesco, Ludovico della tranquillità[24], quanto mai gustoso, ma con un’accentuazione molto personale dell’aspetto piacevole e bonario del grande poeta antiromantico ed antiretorico che rischia di mettere in luce minore la sua complessità, la sua potenza costruttiva; come le numerose conferenze ferraresi (dal ’28 al ’33) raccolte nell’Ottava d’oro[25], ondeggianti fra il contributo erudito piacevolmente volgarizzato e la presentazione da parte di specialisti di risultati già criticamente svolti nella loro opera, fra i «divertimenti» assai dubbi di un Marinetti, di un Campanile, di un Malaparte e le «orazioni» ufficiali dei ministri fascisti.

L’unico volume con volontà d’impegno critico, quello di Giuseppina Fumagalli[26], non fece in realtà che tornare con linguaggio moderno su vecchie posizioni (l’amore come anima del poema) e su ricerche di motivi individuali in personaggi: Orlando e Rodomonte «colonne-sostegno» del poema, rappresentanti di due opposte umanità unificate nell’amore[27].

E dopo il centenario con i suoi contributi e con l’omaggio dubbio della variopinta folla di celebrazioni retoriche o estetizzanti che tanto poco si addicono alla intimità e alla profonda purezza di quel capolavoro, potremo notare soprattutto accenni ed avvii ad una valutazione dei mezzi espressivi, del lavoro e della poetica ariostesca, della formazione del poeta attraverso le opere minori, della formazione del poema e della sua elaborazione cosí lunga e complessa. Alle opere minori, cui già aveva guardato particolarmente il Carducci, dedicò due volumi Carlo Grabher[28], sulle Rime ritornò Giuseppe Fatini[29], e in due saggi[30], rifusi poi nello studio complessivo piú volte citato, io cercai di rilevare il valore funzionale ed intrinseco di quelle esperienze, troppo spesso ridotte a materiale biografico o viceversa lodate con evidente sproporzione.

E, mentre sul linguaggio ariostesco offriva un saggio Giulio Bertoni[31], piú interessante per la direzione di ricerca che per il preciso metodo[32] con cui fu condotto, e per i risultati assai vaghi ed effettivamente mutuati dalle costatazioni già acquisite nella comune critica estetica («La plasticità e il colore sono gli attributi piú appariscenti che il linguaggio dell’Ariosto assume quando si fa diverso da quello degli altri poeti o quando si avverte la presenza della sua poesia e si sente il respiro della sua vera creazione»[33]), lo studio del Debenedetti Frammenti autografi del Furioso[34] e la relativa recensione densissima di Gianfranco Contini[35] rafforzavano una direzione importantissima di studi sulle varianti, sulla elaborazione del poema, sulle sue tre redazioni[36]. Studi che ci sembrano davvero indispensabili ad incarnare l’esigenza contemporanea e postcrociana di una critica che, senza perdere la essenziale tensione alla definizione centrale e alla distinzione del valore poetico, punti soprattutto sulla formazione, sullo svolgimento, sulla vita dinamica dell’opera d’arte, sull’intreccio di poetica e poesia in cui il poeta risente ed utilizza liberamente, per la realizzazione della sua opera, la tradizione letteraria, le condizioni del gusto del suo tempo e attraverso questo (in simpatia o in reazione, che è sempre contatto) il piú vario e profondo fremere della vita storica.

Tutti gli studi piú recenti sembrano convergere verso l’esigenza di una interpretazione piú precisa e insieme piú storica e funzionalmente stilistica[37]: piú attenta ai precisi valori realizzati e al loro nascere in una acuta coscienza artistica, nella vicinanza e nell’originale distacco da una tradizione, in uno svolgimento di esperienze poetiche, nell’impegno, nella vita storica e nella costruzione di una realtà superiore e compiuta.


1 Il saggio uscito nel 1918 sulla «Critica» fu raccolto nel volume Ariosto, Shakespeare, Corneille, Bari, Laterza, 1920.

2 Era la conseguenza delle posizioni precisate in La riforma della storia artistica e letteraria (1918) (ora questo saggio si legge in B. Croce, Nuovi saggi di estetica, a cura di M. Scotti, Napoli, Bibliopolis, 1991, pp. 147-182): «La vera forma logica della storiografia letterario-artistica è la caratteristica del singolo artista e dell’opera sua». Si veda in proposito e per tutto il periodo critico in cui rientra il saggio ariostesco lo studio di L. Russo, La critica letteraria contemporanea, Bari, Laterza, 1942, vol. I, pp. 157-180.

3 Riflesso questo della teoria della «circolarità dello spirito» enunciata già nel Breviario di estetica e di quella della «totalità dell’esperienza estetica» nel saggio omonimo del ’17.

4 Si pensi come a caso tipico al confronto fra Leopardi e Foscolo nel saggio del Croce su quest’ultimo (in Poesia e non poesia, Bari, Laterza, 1923), in cui il diverso accento di comprensione è inizialmente legato al «sí» e al «no» dei due poeti alla vita ed ai valori comunque indicati sotto lo stesso nome di «illusioni». Il che, naturalmente, non significa ridurre tali posizioni critiche ad una semplice questione di consonanza o dissonanza di spiritualità o, peggio, di carattere, ma indica, anche di fronte a critici tutt’altro che impressionistici e sentimentali, l’inevitabile peso delle condizioni spirituali del critico, delle direzioni intime del suo gusto che gli permettono o no di adoperare efficacemente il suo strumento di interpretazione. E significa legare la storia della critica alla generale storia del gusto di un’epoca e a quell’ideale di poesia, che ogni critico implicitamente possiede e al di là del quale, per quanto ricco e comprensivo, non potrà mai effettivamente andare.

5 Come fa Roberto Battaglia in un articolo apparso su «Rinascita» (marzo 1950), L’Ariosto e la critica idealistica, che sembra giusto chiamare con Luigi Russo (in «Belfagor», maggio 1950) «sconcertante» e con Lanfranco Caretti (in «Nuovo Corriere», 21 ottobre 1951) «curioso» per l’applicazione incauta di procedimenti dell’interpretazione storica materialistica anche nelle aggiunte ed esteriori variazioni sulla società ferrarese (città e campagna) e sulla popolarità dell’Ariosto «poeta progressivo», come si apprende nella Introduzione del Battaglia a un’edizione delle Novelle del Furioso (Milano, Canguro, 1950). Non si nega ed anzi ci si augura una interpretazione del Furioso che tenga conto della società entro cui nasce, che storicizzi piú in profondo la nostra conoscenza del capolavoro del Cinquecento rinascimentale, che colga nell’Ariosto le qualità genuine del suo spirito aperto e generoso in accordo con un tempo eccezionalmente vitale e non intimidito ancora dalla Controriforma e dalla dominazione spagnuola (e il rimprovero del Tasso all’Ariosto di essere stato un cortigiano poco zelante può essere significativo, ma non esclude l’accettazione da parte del «viaggiatore sedentario» della ragione del «signore», la sua ricerca di agio tranquillo e l’insofferenza per ogni impegno che lo discostasse dal «creder come l’altre genti»). Ma non crediamo che basti per far ciò disconoscere il lavoro di analisi e di sintesi del Croce e dei critici crociani e postcrociani e presentare in cambio formule assai piú generiche e qualche noterella di diari quattrocenteschi, con considerazioni di cronaca locale.

6 «Il suo amore per l’armonia non passava attraverso un concetto, non era amore pel concetto e per l’intelligenza, cioè per cose rispondenti ad un bisogno che egli non provava: ma era amore per l’Armonia direttamente e ingenuamente vissuta, per l’Armonia sensibile: un’Armonia che non sorgeva, dunque, per un disumanamento e abbandono di tutti i sentimenti particolari e un salire religioso al mondo delle idee, ma anzi come sentimento tra i sentimenti, sentimento dominante che circonfondeva tutti gli altri e li componeva tra loro» (Ariosto, Shakespeare, Corneille cit., p. 48). Preoccupazione di concretezza che torna sino alla conclusione («non armonia in genere, ma armonia affatto ariostesca»), ma che non toglie l’effettivo pericolo di una sovrapposizione della formula contro cui lo stesso Croce insiste a mettere in guardia con l’avvertenza della incapacità di ogni formula a stringere davvero la concreta poesia. «La poesia del Furioso (come del resto, ogni poesia) è un individuum ineffabile, e l’Ariosto, poeta dell’armonia, cosí e cosí determinato non coincide mai del tutto con l’Ariosto, poeta ariostesco, che è poeta dell’Armonia, e non solo dell’Armonia, determinato nei modi da noi detti e anche in altri sottintesi o non dicibili» (ivi, p. 45).

7 H. Hauvette nel suo libro L’Arioste et la poésie chevaleresque à Ferrare au début du XVIe siècle (Paris, Champion, 1927) studiò di nuovo le relazioni dell’Ariosto con la tradizione cavalleresca a Ferrara, e se non disse nulla di nuovo circa il poeta, offrí utile materiale per una storicizzazione piú sicura del poema.

8 Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, a cura di N. Zingarelli, Milano, Hoepli, 1934.

9 «Fra la terra e il cielo messer Ludovico si è aperto uno spazio, dove si entra senza sofferenze e senza fede, senza religione rivelata: un terzo mondo, che i pedanti hanno per uso proprio definito cavalleresco, e il cui pregio poetico e carattere mirabile è d’esser fuori della storia e del tempo» (L. Ambrosini, Introduzione all’Ariosto, in Teocrito, Ariosto, minori e minimi, Milano, Corbaccio, 1926, p. 194).

10 Ivi, p. 218.

11 Ivi, p. 236.

12 A. Momigliano, Saggio sull’Orlando Furioso, Bari, Laterza, 1928.

13 Rilevò con eccessivo accento polemico tali pericoli, compensati da tanta ricchezza di osservazioni felici e nuove, Giuseppe De Blasi, Rassegna ariostesca, «La cultura», n.s., I, 1929, pp. 35-48. Una ricerca di superamento di ogni drammaticità incentrata nell’esame dell’episodio della pazzia di Orlando si trova nel saggio di G. Citanna, Epica ed ironia dell’Orlando Furioso, in Saggi sulla poesia del rinascimento, Milano, Trevisini, 1939. Sull’«ironia» si veda anche R. Spongano, in La prosa di Galileo e altri scritti, Messina, D’Anna, 1949.

14 Fra i commenti veri e propri, improntati alle esigenze della critica estetica, meritano di essere ricordati per i loro contributi particolari al problema critico ariostesco, nel rinnovato bisogno di leggere il poema, di rilevarne, dopo la valutazione crociana, il valore poetico dei vari episodi, il linguaggio poetico e la ricchezza immensa di fantasia e stile, quello di P. Nardi (Milano, Mondadori, 1927), di G. Raniolo (Firenze, Le Monnier, 1933), di A. Marenduzzo (Milano, Vallardi, 1933), di G. Petronio (Napoli, Perrella, 1934), di N. Sapegno (Milano-Messina, Principato, 1941), di R. Ramat (Città di Castello, Macrí, 1945), di W. Binni (Firenze, Sansoni, 1942), di M. Santoro (Napoli, 1943). Si veda ora il commento particolare all’episodio di Olimpia di F. Catalano (Lucca, Lucentia, 1951).

15 Si vedano il saggio di E. Li Gotti, Ariosto narratore, in Saggi, Firenze, La Nuova Italia, 1941, e quello di A. Capasso, Piccoli romanzi nel grande romanzo del Furioso, in Tre saggi sulla poesia italiana del Rinascimento, Genova, E. degli Orfini, 1939.

16 G. Raniolo, Lo spirito e l’arte dell’Orlando Furioso, Milano, Mondadori, 1929.

17 Ivi, p. 15.

18 E una lettura ricca di osservazioni, specie nella direzione della «musica», è quella di F. Flora, Guida alla lettura dell’Orlando Furioso, nella sua Storia della letteratura italiana, Milano, Mondadori, 1941, vol. II, parte I.

19 G. Raniolo, Lo spirito e l’arte dell’Orlando Furioso cit., p. 15: «Poiché la vita, secondo l’ingenua missione di questo artista, è sempre nel giusto mezzo tra uno spettacolo variopinto e una realtà austera, onde la contradizione armoniosa; guardarla da una altezza lontana e nel tempo stesso patirla. Né è infrequente il caso in cui lo sguardo ironico si copre d’un velo di pianto. Qui io credo che sia l’unico principio unificatore di tutta la poesia del Furioso».

20 Oltre la monumentale Vita di Ludovico Ariosto del Catalano già ricordata e uscita nel ’31, non mancarono opere piú divulgative e variamente efficaci, come quella di A. Pompeati, Ludovico Ariosto, Milano, Mondadori, 1933. Utili anche il volumetto di A. Lazzari, La vita e le opere di Ludovico Ariosto, Livorno, Giusti, 19372, e quello di G. Fatini, Ludovico Ariosto, Torino, Paravia, 1938.

21 G. Fatini, Bilancio del centenario ariostesco, e Ancora del centenario ariostesco, «Leonardo», 1934, e già prima L’ora dell’Ariosto, «Civiltà moderna», 1930; G. Petronio, Rassegna di letteratura ariostesca, «Ateneo Veneto», 1934; P. Niccolini, Ariosto dopo il quarto centenario, Roma, Formíggini, 1936; E. Alpino, Considerazioni sul centenario ariostesco, «Via dell’Impero», 1934.

22 Ricorderò come notevole, per alcune osservazioni che partono dal confronto fra Boiardo ed Ariosto, l’articolo di A. Zottoli, Il Centenario del Furioso (in «Pegaso», V, 1933, 6, pp. 641-670), in cui sono da sottolineare, per il loro interesse di precisazione di motivi desanctisiani, questi due punti circa il «cuore» («È un cuore che è doveroso accettare in blocco, ma assai pericoloso dettagliare al minuto: voglio dire che, se non si vuol rischiare di prendere per effetti della commozione quello che è virtú dell’arte, bisogna guardarsi dal cercare nei singoli episodi e negli atteggiamenti dei singoli personaggi i personali affetti dell’autore») e circa il «riso» ariostesco («Tutti abbiamo visto quel riso quasi impercettibile che aleggia su tanti ritratti dell’epoca. Tale riso non è testimonio di un’indole particolarmente gaia della persona ritratta, e tanto meno sta lí a dirci che il pittore si è data la pena di coglierlo quando era sotto l’effetto di particolari cause letificanti; ma stacca la figura dalla vita e l’isola in se stessa [...]. Diciamo per un momento che il poema dell’Ariosto è come le persone di quei ritratti: anch’esso è staccato dalla realtà e sa di non essere altro che un’opera d’arte»). Sottili osservazioni, eppure anch’esse (tanto il tono ariostesco di impegno e di distacco, di esperienza vitale e di sogno fantastico cade facilmente verso uno solo dei due termini nelle approssimazioni critiche) non prive di un’eccessiva valutazione della «virtú dell’arte» e del distacco dalla realtà. Un rischio che chiede al suo fianco la maggiore storicizzazione possibile e l’attenzione piú minuta alla formazione della poesia ariostesca cosí limpida e cosí difficilmente afferrabile. Nell’articolo Ariostesca (in «La Cultura», 1933) e nel volume Dal Boiardo all’Ariosto (Lanciano, R. Carabba, 1934), lo Zottoli mostra meglio i limiti della sua critica verso una ripresa della poesia ariostesca come «giuoco».

23 Lanciano, R. Carabba, 1915. Ad una edizione dei Cinque Canti lavora lo studioso americano Allan H. Gilbert, che si interessa anche della composizione ed elaborazione del Furioso.

24 Bologna, Zanichelli, 1933. Al Baldini si deve anche una piacevole scelta assai interessante delle «piú belle pagine» dell’Ariosto (Milano, Treves, 1928).

25 Milano, Mondadori, 1933.

26 L’unità fantastica del Furioso, Messina-Milano, Principato, 1933. La Fumagalli, a cui si deve la già citata Fortuna del Furioso nel cinquecento (e in questa direzione va notato anche il suo articolo su Ludovico Ariosto nella vita elegante del ’500, «Nuova Antologia», 1° luglio 1933), ritornò sul punto centrale del libro nel saggio Genesi ideale del capolavoro ariostesco, «La Nuova Italia», 1935. Negli stessi anni è da notare l’articolo di M. Bonfantini, Opinioni sul Furioso (in «Leonardo», 1933), a cui seguí, poco dopo il centenario, il volume Ariosto (Lanciano, R. Carabba, 1935), espositivo e bene informato e non privo di osservazioni interessanti, ma senza pretese di sostanziali novità.

27 E un ritorno a posizioni critiche arretrate e ad un’interpretazione psicologica inaccettabile è nel libro di M. Chini, L’Ariosto innamorato, in Studi sopra le Rime e sopra l’Orlando Furioso, Torino, Lattes, 1936, su cui definitive le osservazioni del Croce (in «Critica», 1936) e del Momigliano (in «Corriere della Sera», 9 luglio 1936), ora in Elzeviri, Firenze, Le Monnier, 1945.

28 C. Grabher, Il teatro dell’Ariosto, Roma, Edizioni Italiane, 1946, e La poesia minore dell’Ariosto, Roma, Edizioni Italiane, 1947.

29 G. Fatini, Le Rime dell’Ariosto, Torino, Chiantore, 1934.

30 W. Binni, Le Satire dell’Ariosto, Le Rime dell’Ariosto, «Belfagor», 15 marzo, 15 novembre 1946.

31 G. Bertoni, Il linguaggio poetico di Ludovico Ariosto, in Lingua e pensiero, Firenze, Olschki, 1932. Si veda anche del Bertoni il breve profilo Ludovico Ariosto, Roma, Formíggini, 1925, il saggio in Lingua e poesia, Firenze, Olschki, 1937, e Motivi dominanti nella poesia dell’Orlando Furioso, «Cultura neolatina», 1941.

32 Come si sa il Bertoni cercava una possibilità di superamento del crocianesimo nella storia di lingua e linguaggio, «la sola storia che in sede letteraria ed estetica ci permette di discriminare l’accento o la divina armonia del poeta» (Il linguaggio poetico di Ludovico Ariosto cit., p. 52).

33 Ivi, p. 54. Tendenza al figurativo tradizionalmente notata, ma qui esagerata nella plasticità di fronte al disegno e al colore, finiti e pur pronti a svolgersi e a trascolorare senza nulla di statico e di statuario. Sullo stile dell’Ariosto in relazione a formule della critica figurativa di origine wölffliniana, è interessante il saggio di T. Spoerri, Renaissance und Barock bei Ariost und Tasso, Bern, P. Haupt, 1922. E piú recentemente B. Migliorini, in un articolo nitido e preciso sulla lingua dell’Ariosto (in «Italica», XXIII, 1946, pp. 152-160), poneva le basi per uno studio piú sicuro dello strumento linguistico ariostesco nel suo staccarsi dall’emiliano illustre e nel suo cercare nella coerenza e organicità del toscano letterario un mezzo di nobilitazione, di affabilità e di musicalità fuori del «volgare uso tetro».

34 Torino, Chiantore, 1937.

35 Come lavorava l’Ariosto, in Esercizi di lettura, Firenze, Parenti, 1939 (ora Torino, Einaudi, 1992).

36 Sulle redazioni, per lo studio delle quali essenziale l’edizione Orlando Furioso secondo le stampe del 1516, ’20, ’37, a cura di F. Ermini, Roma, Società Filologica romana, 1909, oltre al vecchio studio di M. Diaz, Le correzioni dell’Orlando Furioso, Napoli, Tip. R. Univers. di Tessitore, 1900, vedi: G. Lisio, Note ariostesche. La prima e l’ultima ispirazione dell’Orlando Furioso, Roma, 1904, e Il c. I e il c. II dell’Orlando Furioso: testo critico comparato, Milano, Società per le arti grafiche, 1909; F. Francavilla, Alcune osservazioni sulle due edizioni pubblicate dall’autore, l’una il 1516, l’altra il 1532, dell’Orlando Furioso, Isernia, Colitti, 1902; M. Malkiel Jirmounsky, Notes sur les trois rédactions du Roland Furieux, in Humanisme et Renaissance, Paris, Droz, 1936.

37 Coerentemente alla sua posizione di critica stilistica, G. De Robertis ha dato recentemente il primo saggio di un lavoro sulla poesia ariostesca nell’articolo Lettura sintomatica del 1° dell’Orlando, «Paragone», 4, 1950.